Sta ripartendo il dibattito sul Reddito di Cittadinanza. La legge che lo ha istituito prevedeva che, dopo 18 mesi dall’erogazione del sussidio, ci fosse un mese di sospensione ed i percettori facessero nuovamente domanda per ottenerlo. Visto che, dalle prime richieste di 410.000 nuclei familiari, fatte ad Aprile 2019, sono passati 18 mesi, si vuole approfittare di questa sospensione per rivederne i requisiti e le caratteristiche. C’è intenzione, da parte di diversi soggetti (Confindustria in testa), di approfittare di questo momento per abolirlo o riformarlo radicalmente.
La misura era nata, assorbendo tutti i precedenti stanziamenti destinati al contrasto all’esclusione sociale, per “dare lavoro ai poveri”, come se la povertà fosse causata solo dalla mancanza di lavoro e dimenticando che la povertà è determinata da diverse cause: ci sono i “working poor” persone che, pur lavorando, non riescono ad ottenere un reddito sufficiente per la sopravvivenza (in questa condizione, per esempio, ci sono il 12,3% degli operai: si tratta generalmente di nuclei familiari monoreddito di 4 o più persone). Ci sono persone che hanno problemi familiari, sanitari, abitativi, di cura dei loro cari, di istruzione e qualificazione professionale. Ci sono invalidi che non sopravvivono con la pensione di invalidità. Ci sono poi un milione e mezzo di immigrati in condizione di povertà assoluta che sono stati completamente esclusi, in ossequio alla retorica leghista per cui “fanno la pacchia”.
La misura era stata presentata come “l’abolizione della povertà” ed ha subito, nel corso della sua vigenza, critiche da parte delle varie associazioni di datori di lavoro che “non trovavano lavoratori” perché le persone avrebbero preferito percepire i 569 euro (in media) del sussidio piuttosto che andare a lavorare. È facile notare che l’affermazione corretta sarebbe stata “non troviamo lavoratori in nero”, vista l’impossibilità per i percettori di rifiutare un lavoro regolare.
Cerchiamo di capire chi ci ha guadagnato e chi ci ha rimesso con il reddito di cittadinanza. Ci ha guadagnato sicuramente Mimmo Parisi, presidente dell’Anpal (l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive sul Lavoro), preso dai grillini in una sconosciuta università del Mississipi, nominato alla presidenza ed assegnatario di uno stipendio (aumentato per l’occasione) di 240.000 euro l’anno a cui l’interessato ha aggiunto, nel solo corso del 2019, rimborsi spese per 160.000 euro. È stato presentato in pompa magna come il guru che avrebbe rivoluzionato il mercato del lavoro in Italia, quello che avrebbe realizzato una app per facilitare il rapporto tra domanda e offerta di lavoro, è finito a fare il boiardo di stato incapace anche di far connettere i sistemi informatici dell’Agenzia con i navigator a casa.
Ci hanno guadagnato anche i 3.000 “navigator”, assunti a 1.700 euro al mese, che avrebbero dovuto intervistare i percettori del reddito e trovargli un lavoro. È da notare che, a causa dell’emergenza covid, oltre ad essere rimasti a casa senza fare assolutamente nulla (continuando a percepire lo stipendio) hanno anche avuto diritto al bonus di 600 euro.
Vediamo com’è andata invece per le 3.164.993 persone (1.248.879 nuclei familiari) che attualmente percepiscono il reddito di cittadinanza. Dal punto di vista della collocazione al lavoro è stato un fallimento. Solo 875.887 percettori del sussidio sono stati individuati dall’Anpal come soggetti alla sottoscrizione del patto per il lavoro e, siccome avrebbero dovuto esserlo tutti i componenti maggiorenni di un nucleo familiare che percepisse il Reddito di Cittadinanza, con esclusione di chi avesse figli minori di 3 anni o disabili nel nucleo familiare, di chi studiasse o facesse corsi di formazione e degli occupati a basso reddito, si capisce palesemente l’inefficienza dell’Anpal. Di quelli individuati ancor meno (376.552) sono stati convocati. A dicembre 2019, prima del covid (che ha ulteriormente depresso il mercato del lavoro), solo 28.000 persone avevano trovato lavoro, per lo più precario ed a termine.
Dal punto di vista del contrasto alla povertà è invece andata un po’ meglio: per la prima volta da 5 anni è diminuito (di poco) il numero complessivo della persone in condizione di povertà assoluta. Però questo dato sintetico non descrive cosa è successo, dato che è bene analizzare analiticamente.
In Italia ci sono 4,6 milioni di persone in condizione di povertà assoluta e 8,8 milioni di persone in condizione di povertà relativa. La differenza tra povertà “assoluta” e povertà “relativa” è data dal metodo di calcolo: se si riesce ad acquistare un paniere di beni nel primo caso, se si ha un reddito inferiore alla metà del reddito medio nell’altro.
Nel calcolo della povertà assoluta, questi limiti di reddito vengono poi ponderati per ampiezza ed età dei componenti del nucleo familiare, per area geografica e per dimensione della città di residenza. Una coppia con un figlio adolescente che vive in una grande città del Nord Italia è povera in senso assoluto se ha un reddito mensile inferiore a 1.464,42 Euro. Un single che vive in un piccolo paese del Mezzogiorno è assolutamente povero se ha un reddito mensile inferiore a 566,49 Euro.
La povertà relativa invece si calcola in base alla metà del reddito medio riparametrato per i membri del nucleo familiare. Nel 2019 è stata considerata relativamente povera una coppia che guadagnasse meno di 1.094,95 euro al mese.
Per concedere il reddito di cittadinanza sono stati chiesti requisiti simili ai meccanismi di rilevazione della povertà assoluta ma calcolati diversamente. Il reddito di riferimento (determinato attraverso l’ISEE) è pari a 6.000 euro annui aumentato di 2.360 euro se si vive in affitto, riparametrato in base ai componenti del nucleo familiare ed è unico su tutto il territorio nazionale. Diverse persone, soprattutto residenti nelle aree metropolitane del Nord Italia, pur risultando statisticamente “assolutamente poveri” non sono rientrate nei requisiti per accedere al reddito di cittadinanza. Non sono rientrati nel sussidio neanche molti degli individui “relativamente poveri” (8.8 milioni di persone, il 14,7% dei residenti in Italia).
I dati statistici confermano questa divergenza. Nel Mezzogiorno la povertà assoluta scende dall’11,4% degli individui al 10,1%. Al Centro Italia sono poveri il 5,6% degli individui residenti (erano il 6,6%). Invece al Nord diminuisce di poco e addirittura aumenta nel Nord Est (dal 6.5% degli individui al 6.6%).
Un discorso specifico merita la situazione degli immigrati, che sono stati esclusi dal reddito di cittadinanza. Il 26,5 % delle persone in condizioni di povertà assoluta è costituito da immigrati (1.400.000 individui). Il dato relativo è ancora più alto se si tiene conto dei nuclei familiari. Circa una famiglia di poveri su tre (il 30,4%) è immigrata e le famiglie di immigrati costituiscono solo il 5.6% della popolazione residente in Italia.
È rimasto sostanzialmente stabile il numero delle persone relativamente povere (dal 15.0% al 14.7%). Quello che va rimarcato è l’incremento costante nel corso degli anni dei numeri, in assoluto e in percentuale, dei poveri in Italia. Nel 2005 (data di inizio della rilevazione statistica) le persone in povertà assoluta in Italia erano 1,9 milioni: in 15 anni sono aumentati del 242%!
I padroni ed i loro pennivendoli si sono inventati un neologismo secondo cui vivremmo nel “Sussidistan”, unendo la parola “sussidio” al suffisso “-stan” caratteristico della denominazione di alcuni stati dell’Asia centrale, per rivendicare l’abolizione di qualsiasi forma di spesa sociale. Ovviamente dimenticano che in Italia i sussidi li prendono le imprese. Solo la FCA (che ha sede ad Amsterdam), senza contare tutti gli altri sussidi, ha preso 6.3 miliardi di euro di prestiti garantiti dallo stato nel solo 2019: più del costo del Reddito di Cittadinanza nello stesso periodo. I Benetton, attraverso Autostrade per l’Italia (ma non dovevano espropriarle?) hanno preso 1.2 miliardi di euro.
È evidente che il Reddito di Cittadinanza non risolve il problema della povertà, la sua abolizione, come vorrebbe Confindustria, renderebbe però disperata la situazione, visto che al suo interno erano confluiti una serie di altri stanziamenti che servivano ad alleviare le situazioni di disagio sociale.
Non è soltanto la ferocia sociale ed il neomalthusianesimo che spinge gli industriali alla guerra ai poveri. Sono in attesa dei 209 miliardi del recovery found e degli 80 miliardi del MES e vogliono evitare che vadano, anche se in minima parte, alla spesa sociale. Con la pandemia e la crisi economica il numero dei poveri aumenterà e di molto: la guerra preventiva che stanno facendo serve a bloccare eventuali stanziamenti sociali prima ancora che vengano definiti. Ricordiamoci che l’economia capitalistica è un gioco “a somma zero”, come il poker: se qualcuno vince, qualcun altro perde; se un ricco diventa più ricco, è perché qualcun altro diventa più povero.
Se si vuole veramente abolire la povertà va abolita anche la ricchezza. È questo il motivo per cui i ricchi fanno la guerra ai poveri.
Fricche